Emigrazione italiana - storia

L'emigrazione è stata un fatto importante nella storia italiana contemporanea: è durata più di un secolo, dal 1820 al 1980, e ha coinvolto milioni di persone di diversa provenienza geografica e sociale; è stata, inoltre, molto varia per la molteplicità dei paesi di destinazione.
Il fenomeno della migrazione italiana si può distinguere in cinque fasi.
 
1. La prima fase (1820-1900) 
L’emigrazione italiana moderna inizia nel 1820, dopo le devastanti guerre napoleoniche. 
Nel 1830 in America si contano appena 440 italiani, ma, a partire dal 1880, l’emigrazione dall'Italia cresce fino a circa 100.000 persone l’anno. 
In particolare ciò si deve alla grande crisi agraria degli anni Settanta e all'incapacità politica dei governanti del nuovo Regno d'Italia. La migrazione interessa in questa fase più di cinque milioni di persone ed è in gran parte individuale e maschile. Questi emigranti partono per lo più dal Nord-Italia e si dirigono prevalentemente verso i paesi europei e l'America Latina (in particolare Argentina e Brasile).
 
2. La seconda fase (1900-1914) 
La seconda fase coincide con lo sviluppo industriale dell'età giolittiana e con il conseguente abbandono delle campagne. L'emigrazione di questo periodo è prevalentemente diretta ai paesi extraeuropei ed è costituita per più del 70% da soli uomini che lasciano le regioni meridionali e il Nord-est. Vi è anche però un'emigrazione diretta verso la Francia, la Svizzera e la Germania dove è richiesta manodopera a basso costo per le miniere, l'edilizia e la costruzione di strade e di ferrovie; questo secondo tipo di migrazione coinvolge intere famiglie ed è di lungo periodo. In questi anni il capo del governo Giovanni Giolitti vara la Legge Generale sull'Emigrazione che limita l'azione degli speculatori ai danni degli emigranti. Nel 1913 si tocca la punta di massima emigrazione. Lo scoppio della Grande Guerra ferma il fenomeno migratorio.

3. La terza fase (1915 1942)
Nella terza fase, tra le due Guerre Mondiali, si registra un certo rallentamento dei flussi migratori dovuto sia alle misure restrittive prese dai paesi ospiti, sia alla politica antimigratoria del fascismo. 
Al termine della Grande Guerra, data la grave crisi economica, riprende il flusso migratorio: in appena dieci anni l’Italia perde una popolazione superiore a quella dell’intero Lazio. Nel 1927 gli Italiani all’estero sono già moltissimi: nella sola Australia se ne trovano ben 27.570.
Dal 1931 le cose cambiano: gli Stati Uniti limitano il numero degli accessi di cittadini stranieri e il Governo Fascista riesce quasi a eliminare del tutto l’esodo. Mussolini emana una legge che condanna da uno a cinque anni ed a una multa salatissima chi truffa le persone facendosi consegnare o promettere somme di denaro come compenso per farle emigrare. Con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale si interrompe ancora la migrazione.

4. La quarta fase (1946-1970) 
Dal 1946 fino al 1971 l’emigrazione riprende nuovamente a ritmo intenso; in 25 anni emigra una popolazione pari alla popolazione dell'Austria. Le nazioni scelte sono gli Stati Uniti, l'America Latina, l'Australia e, in Europa, le tradizionali mete dell'emigrazione italiana: Francia e Germania a cui si aggiunge il Belgio, che richiede ancora della manodopera per il settore minerario. 
Nel Novecento, infatti, in alcuni Paesi Europei la richiesta di manodopera a basso costo è superiore alla disponibilità interna: il bisogno di lavoranti viene così soddisfatto dagli italiani, ma a scapito dell'immagine degli italiani stessi che vengono percepiti come degli intrusi da parte delle popolazioni locali. L'emigrazione verso i Paesi Europei assume ora anche un carattere stagionale e non sono rari i rimpatrii definitivi. Nel frattempo si avvia anche una forte emigrazione interna dai centri rurali e dalle città del sud verso i centri industriali del Nord, investiti dal boom economico.

5. Dall'emigrazione all'immigrazione (dal 1971 ad oggi) fino alla nuova emigrazione
Fra gli anni Settanta e gli anni Ottanta l’emigrazione italiana cessa quasi del tutto. Il numero dei pochi espatriati è pari a quello dei rimpatriati. Dagli anni Novanta si inverte la tendenza e l'Italia da paese di emigranti diventa meta di immigrazione. 
Tra la fine del XX secolo e l'inizio del successivo si è molto attenuato il flusso di emigrati italiani nel mondo. Tuttavia, in seguito agli effetti della "crisi economica" del 2007-13, dalla fine degli anni duemiladieci è ripartito un flusso continuo di espatrii, numericamente inferiore ai due precedenti, che interessa principalmente i giovani, spesso laureati, e che viene definito "fuga di cervelli".

In particolare tale flusso è principalmente diretto verso la Germania, dove sono giunti, solo nel 2012, oltre 35.000 italiani, ma anche verso altri Paesi come il Regno Unito, la Francia, la Svizzera, il Canada, l'Australia, gli Stati Uniti d'America e i Paesi sudamericani. Si tratta di un flusso annuo che, stando ai dati dell'anagrafe degli italiani residenti all'estero (AIRE) del 2012, si aggira intorno alle 78.000 persone con un aumento di circa 20.000 rispetto al 2011, anche se si stima che il numero effettivo delle persone che sono emigrate sia notevolmente superiore (tra il doppio e le tre volte), in quanto molti connazionali cancellano la loro residenza in Italia con molto ritardo rispetto alla loro partenza effettiva.

Il fenomeno della cosiddetta "nuova emigrazione" causata dalla grave crisi economica riguarda peraltro tutti i Paesi del sud Europa come Spagna, Portogallo e Grecia (oltre all'Irlanda e alla Francia) che registrano analoghe, se non maggiori, tendenze emigratorie. È opinione diffusa che i luoghi dove non si registrino mutamenti strutturali nelle politiche economico-sociali siano quelli più soggetti all'aumento di questo flusso emigratorio. Per quanto riguarda l'Italia è anche significativo il fatto che tali flussi non riguardino più soltanto le regioni del meridione italiano, ma anche quelle del nord, come Lombardia ed Emilia-Romagna.

Si tratta di nuovo tipo di emigrazione, molto diversa da quella storica. Non è quindi simile ai flussi migratori dei secoli scorsi. Secondo le statistiche disponibili, la comunità dei cittadini italiani residenti all'estero ammonta a 4.600.000 persone (dati del 2015). È quindi ridotta di molto, da un punto di vista percentuale, dai 9.200.000 dei primi anni venti (quando era circa un quinto dell'intera popolazione italiana). 
 
 Tra il 1861 e il 1985 dall'Italia partono quasi 30 milioni di emigranti. Come se l'intera popolazione italiana di inizio Novecento se ne fosse andata in blocco. La maggioranza degli emigranti italiani, oltre 14 milioni, parte nei decenni successivi all'Unità di Italia, durante la cosiddetta "grande emigrazione" (1876-1915).
Si calcola che nel corso del XX secolo il totale dei partiti sia stato di circa 29.000.000, e che di essi di solo 10.275.000 abbia fatto ritorno in patria. 
Si tratta di un vero e proprio disastro umano che ha procurato grande dolore e grande miseria. Tra le cause, soprattutto della prima Grande Emigrazione, il malgoverno del Regno Sabaudo e una classe politica incapace sia di valorizzare l'agricoltura nazionale sia di far decollare una moderna industrializzazione del Paese. Le scelte dei politici e degli economisti, infatti, piuttosto che favorire lo sviluppo dei settori economici interni favoriscono gli espatri, visti nell'epoca come un modo per alleggerire il mercato interno del lavoro. 
Una condizione penosa era quella di chi era costretto a lasciare per sempre la propria famiglia e la propria terra ma altrettanto poensosa era la condizione di chi restava nel paese ormai vuoto e senza i suoi famigliari emigrati .
Nel 1900, un prete, Monsignor Bonomelli, dà vita all’Opera Bonomelli, un'organizzazione che offre assistenza agli emigranti.

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