Terre libere, laghi e animali
LO STUDIO DI CINQUE RICERCATRICI
Terre libere, laghi e animali
Così si presentava Venezia quando era più facile viverci
Un volume sulla trasformazione urbanistica del 1200 racconta anche l’interno delle abitazioni e il loro contenuto.
LA RICERCA
di Michele Gottardi
Abitare a Venezia oggi è un problema sociale, prima che economico, tra affittanze turistiche e alti costi del mercato immobiliare. Ma c’è stato un tempo in cui la città era in grande espansione e la sua trasformazione urbana andava di pari passo con l’evoluzione del suo corpo sociale, quando, tra XII secolo, la quarta crociata del 1204 e il secolo successivo, sino al Trecento, la “civitas veneciarum” si avviava a prendere una conformazione quasi definitiva, prima delle grandi modifiche otto-novecentesche. È un tema che oggi viene svolto da cinque studiose, storiche dell’arte e dell’architettura, in “Abitare a Venezia da Marco Polo a Carpaccio”, volume edito dalla veneziana Gambier&Keller (150 pagine e 32 di illustrazioni a colori, € 25). «Se avessimo la possibilità di attraversare la Venezia del 1200 lungo il Canal Grande vedremmo una città di dimensioni ridotte, con un abitato molto rado e ampie zone destinate alla coltivazione», scrive la curatrice Paola Placentino, con la presenza di animali da cortile, ma anche vacche e cavalli. La comunità veneziana, dal Mille non più venetica, somigliava più a un arcipelago che a una città urbanisticamente compatta. Molti laghi permanevano nell’ambito lagunare e che vengono progressivamente bonificati per creare terreni a uso abitativo e artigianale. Due gli esempi portati da Michela Agazzi: la zona di San Giacomo dall’Orio, dove per tutto il Duecento esistono dei laghi che vengono via via destinati a spazi di lavoro e abitazioni per gli artigiani della lana, come ricordano molti toponimi nelle vicinanze. Una zona dalla quale le famiglie più importanti prendono invece le distanze, come i Foscari che nel 1452 si spostano al Canal Grande, nell’omonimo palazzo oggi sede dell’Università. A Castello, invece, un grande lago che apparteneva al monastero di san Daniele, con valli da pesca, viene acquistato nel 1325 dallo Stato per ingrandire l’Arsenale, concentrando i cantieri navali in quella zona. Altro polo in trasformazione è il mercato di Rialto, dove si rafforza la presenza di botteghe private e di strutture statali. L’espansione della città tra Due e Trecento è una crescita non solo in estensione, ma anche in altezza: un esempio di questo sviluppo è la casa dei Polo, che sorgeva vicino al Fondaco dei Tedeschi, oltre campo san Bartolomio. I Polo, che stavano a San Silvestro di là del Ponte di Rialto, dopo il viaggio del Milione acquistano casa a san Giovanni Grisostomo: una domus padronale con due piani nobili, con polifore invece delle lunghe logge duecentesche, mezzanini e un terzo piano, un’altezza da quel momento in avanti divenuta consueta nel panorama urbano a significare il ruolo sociale ed economico dei proprietari. Anche le tipologie interne erano comuni alle diverse abitazioni signorili, con una corte con pozzo, erede probabilmente dell’orto precedente, scala, porta magna e poi soprattutto il portego, con le botteghe o i fondaci, che nelle abitazioni minori era sostituito da un porticato con pilastri e architravi in legno. A fianco delle case padronali, le domus da stazio, c’erano le case “de sarzenti” (“a segentibus”) per i lavoranti liberi e gli “hospicia” per i lavoratori bassi, in condizione semiservile. Come ricorda Marina Niero, anche la casa popolare vive in questa fase una nuova espansione, legata soprattutto a tre poli artigianali: a Giudecca, per lo sviluppo delle concerie, a Castello per la cantieristica e a Cannaregio per la tessitura. La ricerca di “Abitare a Venezia” va oltre l’aspetto esteeiore delle diverse tipologie di casa, entrando nelle abitazioni. Cosa c’era dunque in queste case? La risposta la danno Stefania Coccato ed Ester Brunet mescolando la ricerca d’archivio allo studio iconologico, da Vittore Carpaccio a Simone Martini. Stefania Coccato infatti ha compiuto un’indagine archivistica su inventari dell’epoca, doti e testamenti che le hanno permesso di dar corpo e colore a interi cassoni di biancheria, tovaglie, tappeti, indumenti, ma anche utensili e altro materiale domestico, da cui emergono tessuti dai colori vividi e sgargianti. Gli stessi che invece Ester Brunet ritrova all’interno della religiosità domestica, ricostruendo altarini, cappelle private e persino immagini sacre esposte in calle, per elevarle a culto pubblico. Quello che emerge alla fine è una comunità già vivace, dove le divisioni di classe, pur reali, si stemperavano nel vivere giornaliero, tra mille attività e commerci, per poi ripresentarsi più forti a calar del sole, al rientro nelle diverse abitazioni.
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